Aramis, si chiamava Aramis l’uomo magro e deciso che scarpinava senza fatica su per quel sentiero tutto pietre e saliscendi (perchè ancora non avevamo incontrato l’acquazzone del pomeriggio, implacabile in ottobre, e il fango conseguente) alla guida di un gruppetto di italiani – più o meno allenati – su per la Sierra Maestra.
Cuba, provincia di Granma, la Sierra, il percorso fino alla Comandancia di Fidel: una bella camminata, ma sinceramente imperdibile, se si vuol capire qualcosa di più di una rivoluzione lontana e di uomini che hanno ancora vita – tantissima – anche se non ci sono più.”Aquì fue el primero hospital del Che” diceva Aramis, indicando una capannetta di legno, foglie di palma seccata sul tetto. Un ospedale? Un posto per tirarsi fuori dai combattimenti, magari; qualche tomba, lì vicino, non ancora ingoiata dalla foresta, che è foresta vera, a raccontare che sì, lì si viveva e si moriva. Il Che, il dottor Ernesto Guevara de la Serna, ci provava a fare anche il suo primo mestiere, la sua prima passione, ancora prima di quella del rivoluzionario: curare la gente, curare chi sta male.
Oggi, 9 ottobre, nessun media si esime dal ricordare che sono passati cinquant’anni dalla morte del Che, dalla nascita del mito, quello che rende gli eroi eterni nell’essere giovani e belli. Ma dieci anni prima, il Che era lì, magari col fucile accanto, a curare, a fare il suo mestiere di medico. Aramis lo raccontrava con occhi commossi, veri. Perchè di medici, tra i campesinos della Sierra, non è che se ne vedessero molti. E invece giù alla base del sentiero, a Santo Domingo, il piccolo ambulatorio adesso si occupa di 480 pazienti, ci raccontava tre anni fa, in un giorno di ottobre – a me e al gruppetto dei circoli di Italia-Cuba del savonese – il giovane medico pronto, “se non li vedo ad andare a casa loro almeno una volta al mese”.
Sicuramente la rivoluzione castrista ha aavuto molte ombre, e continua ad averle. Il Che, il suo ricordo, il suo lavoro di quegli anni duri, molte meno. Hasta siempre, comandante.
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