Flavio Brighenti, diciamolo subito, ha fatto centro. Ha messo , con cuore e mestiere, vent’anni delle sue interviste a Fabrizio De André in uno spettacolo che si chiama “Io, Fabrizio e il Ciocorì” , che ha riempito per due sere l’Auditorium di Strada Nuova a Genova (in attesa di una meritata serie di date).
Ma non c’erano solo le storie – belle e divertenti, ma anche commoventi – alla base dello spettacolo, con la presenza forte di Laura Monferdini, anima del 29rosso di via del Campo, casa dei cantautori benedetta dalla torreggiante Esteve di Faber appesa al soffitto, e la geniale maestria musicale di Vittorio De Scalzi, con una Jaminn-a che solo per chitarra non fa rimpiangere Mauro Pagani e tutti quanti suonarono quel brano in Creuza de Ma.
E’ che Flavio ha riportato a tanti di noi il cuore e l’anima indietro a quella stagione unica che fu quella dei ragazzi del Lavoro. Lui, io, tanti altri che c’erano in platea in una di queste sere – Wanda Valli, Donata Bonometti, Costantino Malatto, Teddy Chiarelli, Antonio Amato, e spero fossimo tanti di più , se no sarà per la prossima volta – e tanti che allora ci leggevano, ci pensavano giornalisti seri, e invece eravamo un gruppo di ragazzi entrati in corsa nel mondo dei giornali attraverso la porta nobile di Salita Dinegro, dove ti portavano a vedere come una reliquia la stanzetta dove dormiva Pertini, dove gli urli e le lacrime, di rabbia o di gioia, le risate e i pettegolezzi, gli scazzi solenni e la capacità di essere persone, oltre che giornalisti, ci avevano fatto crescere. Eravamo entrati in un bel gruppone nello storico giornale fondato dai carbuné del porto, una storia unica in Italia, perchè il fallimento della gestione del Psi aveva aperto la strada a una cooperativa che aveva bisogno di braccia giovani da affiancare a professionisti esperti. E noi eravamo ventenni assetati di un articolo da scrivere, una firma da leggere sulla pagina stampata che ti dicesse che era vero; ma anche convinti, allora – fine anni ’70, inizio anni ’80 – che anche il nostro lavoro avrebbe potuto fare qualcosa di meglio per il mondo dove vivevamo.
Non ci prendevamo troppo sul serio, diciamolo: ci piaceva fare quello che facevamo, ce ne fregavamo se veniva tardi (e allora tardi lo era davvero, quando la rotativa faceva sentire il rombo lontano nei fondi di Salita Dinegro era un momento letteralmente magico) , incrociavamo il lavoro e le giornate al mare, le cene e i casini sentimentali. Intorno a noi c’era un mondo difficile, c’erano gli anni più neri del terrorismo, c’era una crisi che veniva da lontano e avrebbe portato via certezze e anche vite. Noi c’eravamo, e ascoltavamo le canzoni di De André, chi più chi meno. Quella scuola unica che è stata lavorare in quegli anni a Il Lavoro, nessuno di noi l’ha dimenticata, dopo carriere diverse, più o meno fortunate, più o meno disincantate. Ma mentre Flavio raccontava e vedevamo i titoli proiettati sulla scena, beh l’unica cosa da pensare era: avremo fatto tanti errori, sicuro, ma ci credevamo nel nostro mestiere, nell’essere insieme colleghi e ragazzi. E, anche se solo in un’immagine, stasera con noi c’era anche il ricordo di Raffaele Niri, e non solo il suo. Perchè noi, i ragazzi del Lavoro, abbiamo avuto un dono: pensare che il nostro mestiere servisse a cambiare , appunto, un pochino in meglio il mondo. E divertirci. Sì, siamo stati fortunati.
(la foto è di Antonio Amato, tratta da Facebook)
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